29 maggio 2012

I MaliNati di Angela Bubba

La copertina del libro MaliNati di Angela Bubba

Quando Maria, la madre di Federica Monteleone, risponde alla fatidica domanda, quella che le fanno tutti: “Perché è morta?” sommessamente dice di non saperlo. Il momento è struggente. E si guardano. Angela si sente impotente. “C’è posto solo per il dolore in quell’istante. Il suo dolore, e non il mio”. Lei non è mamma: “Sono nata ma non ho fatto nascere nessuno, di me e del mio corpo non so ancora niente perciò”. Ma una cosa la sa: “Quando un figlio perde un genitore viene chiamato orfano, ma quando un genitore perde un figlio non c’è nessuna denominazione possibile. Mary, nessuno ha inventato la tua parola e la mia parola”.
Il libro di Angela Bubba “MaliNati” è un’archeologia della parola. Un viaggio nei codici linguistici cristallizzati nell’abitudine. Li tocca, li annusa e se ne nutre. E racconta. Trova il tempo anche di evidenziare il “patto” tra la parola pensata e la parola detta: “Esiste un patto – parlando con una ragazza all’Università – fra l’attimo in cui una parola viene fisicamente partorita e l’altro attimo in cui essa deve umanamente concretizzarsi. E quel patto non può essere tradito”. Un rincorrersi di emozioni e di pensieri. In divenire. Difficile stabilirne la precedenza. Pensieri speculari. Che amano sostare sulla realtà. E una realtà che fa fatica a distaccarsi dalla terra, la nuda terra della vita. Una fenomenologia ricca di colore e amante di note. Per dare una forma. Uno spazio. Uno spartito. Una voce. Un grido. Un vulcano di percezioni. Che registra ogni movimento. In filigrana l’essere degli uomini che nascono e vivono. Come le parole.
Il libro di Bubba è una fotografia dei calabresi. Di uomini mal nati. Nati “dove cresce uno strano frutto”. Dove “l’epilessia ha raggiunto un livello tale che si chiama equilibrio. E ovunque è pace e difesa di quella pace, in tutti i luoghi l’eccitazione deriva proprio dall’invariabilità”.  Un viaggio in Calafrica, Calabria Saudita, Calabria Esaurita, in Calabrifornia. Fino a Roma. E ritorno. Il male della Calabria raccontato senza veline. Nudo e crudo. Una passeggiata nel male oscuro. Strano. “L’unica vera isola italiana, il sud del Sud, quel punto piccolissimo eppure grandissimo, e che non si vede”.
Il viaggio inizia a Rosarno. Ai vespri dei senegalesi. “Una stagione all’Inferno”, come ebbe ad intitolare il rapporto di "quelli di Medici senza Frontiere" ben due anni prima della rivolta. “Serre incartate di corpi e di sudore, non erano che questo, moribondi che per cucinare e trovare calore dovevano incendiare del legno o i copertoni di gomma. Anche il cibo che masticavano gli sapeva di plastica, di sangue rancido. Era come se mangiassero la loro stessa putrefazione, capisci? Loro erano vermi sfamati da vermi”. Anche a San Ferdinando dove “oltre seicento immigrati continuarono a stare pigiati come spazzatura, e nella fabbrica della Rognetta più di trecento corpi non facevano che tartagliare di desolazione, avresti dovuto vederli, sfibbiati come carogne, spremuti più delle lettere dentro le frasi di un libro”. Tutti sapevano. E Roberto Maroni e Agazio Loiero danno il là al “noto parco divertimenti: Non c’entro io, c’entri solo tu”.
Da Rosarno a Marcellinara, sulla strada dei due mari, da Catanzaro a Lamezia Terme. La Seteco. Una fabbrica che sprigiona fumo senza mai spegnersi. Per anni e anni. Nonostante il doppio sequestro della Magistratura. “Un mattatoio di gas, una fornace che frustava lo stomaco e otturava l’intero luogo, ogni luogo dentro e fuori di te. La scena di un film: l’auto che entrava in una nube biancastra, che trapanava e ci si dibatteva all’interno, il sugo acido che la graffiava emettendo un trillo dragonesco. L’auto che continuava incredibilmente a muoversi, la scudisciata di salive sintetiche la tratteneva ma lei procedeva lo stesso”. E poi la puzza. Che riesce a fartela sentire. “Un impasto tra varechina seccata e pollo arrosto andato a male, un misto come di agrumi vecchi e tuorli d’uovo marciti sotto il sole”.
È la volta di Crotone. Dove “trecentocinquantamila tonnellate di scorie furono riciclate e poi vendute come materiale da costruzione, utilizzate per mettere in piedi palazzi, banchine di porti, piazzali di scuola, asili, parcheggi e strade. Tutte dislocate nel crotonese, impastate in una miscela di rame, cadmio, nichel, arsenico, piombo, mercurio. Un’immensa distesa di morte e radiazioni. Crotone in una sola parola. Per alcuni la città di Pitagora mentre per altri la città dei veleni, la città senza salvezza e senza supereroi”. Fermata a Capo Colonna. “C’è un abbandono spettrale”. L’unica cosa viva è la schiena di un uomo che usa una motosega. “La corsa dei suoi nervi liquidi dev’essere l’unica cosa viva fra la Terra, il Mare e il Sacro”, i tre mondi dell’antico tempio di Hera Lacinia.
Gli “Occhi che non si chiudono” sono quelli della madre di Federica. Un travaglio di parole. Consonante dopo consonante. Vocale dopo vocale. Che dà voce al racconto. Una voce che senti quando leggi. La vedi. Un lamento ancestrale. Misterioso e aderente ad ogni madre e ad ogni figlio. “Voglio dire che chiudere gli occhi è un atto magico. È una volontà e una libertà. Beati quelli che possono ancora chiudere i propri occhi… Poter chiudere gli occhi e dormire, dimenticare, avere il diritto di poter abbassare il capo contro qualunque luogo e dire che ora si può dormire… si può riposare e si può chiudere gli occhi”.
A Roma. All’Università. Qui il male calabrese è maturo. Trova consolazione in tutti i meridionali. E riconoscenza da quelli che non lo sono. A Monti Tiburtini c’è un cartello. “Appena lo vidi mi fermai, divenni una farina patetica senza più grasso o fantasia. Non respiravo più. C’era scritto che non si affittano case ai meridionali, io lo lessi più volte, mentre balbettavo le sillabe mi auguravo che fossero sbagliate ma m’illudevo”. L’ammonitrice era “un’orgogliosa signora di mezza età”. Aveva “i capelli color lampone e la montatura degli occhiali verdastra, le sue dita scoppiavano di anelli”.
Un male che si confronta. E si amplifica. È il disagio di tutti i giovani.
I pensieri “Interrotti” si concludono con il testamento dell’autrice. Ad un vecchio che le chiede cosa vuole fare. “Ti rispondo, allora, anche se per rispondere devo cambiare verbo. Non voglio, oggi, in Italia, ma devo. Il domani che devo vedere da qui, dal cemento del mio tubo, si chiama oppressione, schiavitù, call center, precariato, favoritismo, si chiama assunzioni che solo se sei figlio di o amante di o nipote o pronipote di le puoi definire tali. Questo. Fammi gli auguri, vecchio”.  Disillusione e disperazione. “Come molti altri non mi sento arrabbiata, ma tradita. La mia testa non è che un vespaio di materia irrancidita, una carne che si sta già macellando. Ci sentiamo traditi, mentre viviamo ci sentiamo già in estinzione. Noi non siamo che bestie braccate nell’utero di nostra madre, sbattute in quel punto col solo fine di non nascere. Il nostro dovere è questo. Arrestarci alle soglia di una vagina mostruosa proprio perché insuperabile, essere ributtati all’indietro come se fossimo implosi. Non voluti. Da ventiduenne, è questo quello che sento di essere insieme a molti altri. Argilla viva ma sprecata, non rispettata”.
MaliNati di Angela Bubba.

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